ELOGIO DEL COMICO
IL RISO/ LA FESTA
II comico è in comunicazione da una parte con il turpe, dall'altra con il sublime. Ha rapporto con la dimensione «bassa» dov'è localizzato il principio materiale e corporeo della vita, nelle sue molteplici accezioni: non solo di carnalità ma anche quelle, eticamente o psicologicamente trasgressive, di osceno, sporco, abietto. E ugualmente conduce alla dimensione «alta» dove ha sede l'intelligenza: I'arguzia, I'ironia e l'autoironia, la derisione, il motto di spirito, fino al gioco mentale gratuito o insensato, introducono a un'esperienza più rarefatta dello spirito e segnano lo sdoppiamento della coscienza che consente di contemplarsi come dall'esterno, di prendere le distanze dalle modalità note e usuali dell'essere.
La fisiologia dei bisogni primari, fino all'escrementizio (ma anche la fame, la sete, il sonno), è di pertinenza del comico; e così pure gli eccessi, i peccati capitali, il vizio, esorcizzati nella beffa o enfatizzati nell'esaltazione plebea. È questa l'inferiorità del riso, che, se è stata riscattata storicamente in vari modi dalla cultura, permane tuttavia - come avviene per il fratello germano del comico, I'erotismo - al fondo della coscienza collettiva. Si deve comunque scendere, cadere, lungo la scala del reale verso un elemento più pesante - la terra - sotto il segno della trasgressività fino magari alla negazione nichilista, per attingere questa zona: oggetto oscuro del desiderio ma anche dell'abiura. Qualora si arrivi a concepire il riso come gratuità assoluta, come puro dispendio, perfino questa sarà una negazione.
Al polo opposto, con moto ascensionale, il comico possiede la chiave di accesso a scenari inconsueti della mente, quali il paradosso e il nonsense, anche nelle forme più eteree che rasentano l'astrattezza matematica o metafisica. L'immaginazione tocca allora i vertici dell'assurdo e del surreale come nei momenti di più sottile speculazione, con un effetto straniante e di sorpresa rispetto alla coscienza comune. È l'altra faccia, il riso superiore, forse vicino a quello degli dèi o del sapiente immaginato da Nietzsche.
Nel ventaglio delle sue funzioni il comico include la degradazione zoomorfa dell'uomo, la caricatura bestiale che è insulto alla dignità della sua figura ma riconoscimenio anche di un'istintualità profonda. Le maschere animalesche, le figure che avvicinano l'uomo alle fisionomie delle bestie ridicolizzano l'immagine superiore ch'egli ha di sé quale essere al sommo della gerarchia dei viventi, e intanto rivelano la presenza e il dominio in lui di forze puramente impulsive e cieche. L'antropomorfizzazione degli animali - altro campo del comico - produce il medesimo effetto. Avviene una regressione che è al contempo moto liberatorio. Due verità contrastanti convivono nello stesso atto.
Oltre il travestimento zoomorfico, altri elementi perturbanti penetrano nell'esperienza attraverso la finzione comica. Per esempio il «doppio», il deforme e il mostruoso, che rivelano la parentela dell'umano col disumano, della «forma» nella quale la ragione si contempla col territorio dell'alterità e dell'informe. Poi il riso è contiguo alla follia; le figure del delirante e del demente rimandano allo sconvolgimento del ridere; il sussulto fisiologico, la piccola epilessia, il delirium di questo non solo somiglia nella gestualità fisica, ma contiene nel proprio congegno intimo qualcosa dello stravolgimento e dell'oscurità che sono propri della perdita della ragione. Del resto anche la pazzia può produrre una lucidità straordinaria, da saggezza superiore.
Socialmente il comico contiene una dimensione ludica: è gioco, carnevale, festa. E intanto ha in sé una serietà superiore che nasce dal recupero dell'autentico attraverso il rifiuto della contraffazione e del pregiudizio, rifiuto realizzato nel motteggio, nella beffa, nel rovesciamento dei significati, nel disvelamento di verità nascoste sotto l'ipocrisia. È licenza espressiva e discorso eticosociale al tempo stesso. Da un lato, infatti, la comicità inscena riti liberatori di una primitiva energia vitale, come avviene per eccellenza nello scatenamento della festa e dell'orgia sociale, grande momento di trasgressione collettiva delle leggi ma chiuso in parentesi (per così dire), delimitato nel tempo e nelle regole. Così nel carnevale perfino gli atti più illeciti sono in anticipo ammissibili perché commessi sotto una maschera che ne circoscrive per convenzione la portata, negando intanto l'identità personale e quindi la natura stessa di delitto. Si veda ad esempio la maschera del Dòmino sotto la quale era lecito compiere azioni altrimenti inaccettabili, e forse con la complicità della vittima, con la sua consapevolezza inconfessata, e anzi con la sua disponibilità propiziatoria. Ma in genere ogni maschera non soltanto immedesima l'individuo con una figura dell'immaginario collettivo già accertata nell'ambito della trasgressione sociale, ma autorizza l'anonimato del soggetto, la perdita della responsabilità, la regressione a uno stato istintuale dove tutto sia permesso. La maschera è lo strumento essenziale dello scatenamento. Qui il comico in quanto ritualità ludica si ricollega al primitivo, a ciò che temporalmente e antropologicamente costituisce un sostrato e un deposito dell'umanità, negato o contrastato in ogni tempo dalle leggi della convivenza civile; e intanto ha riferimenti con pulsioni dell'inconscio e con zone del rimosso: chi partecipa alla sua dimensione di gioco trasgressivo rivela trivialità, associazioni inconsuete e vietate, impulsi libidici e altre figure (dell'autodenigrazione e dell'offesa) che normalmente sono soggette a processi di repressione.
Se la comicità rappresenta nel gioco e nella festa il territorio del proibito sotto l'angolazione del gesto gratuito, fine a se stesso, eseguito nello spazio circoscritto di un'occasione sociale prevista ma irregolare, quindi col proposito di contrapporre all'istituzione un altro universo che si autodefinisce provvisorio e inferiore, essa presuppone però nel contempo un'intenzionalità seria che ha fatto da sempre pesare la diffidenza del potere verso le sue manifestazioni. La beffa, la parodia, il mottéggio - anche quando non attingano l'organicità intellettuale della satira politica e non - sono tollerati o subiti dalla società istituzionalizzata, o al più vengono usati quali valvole di sfogo ma in questo caso nel presupposto che sia possibile arginare con altri mezzi la loro carica dirompente o ribellistica. Nelle società non chiuse, non dittatoriali, si ride ufficialmente; tuttavia la tensione permane verso quel corpo estraneo o elemento di disturbo che è il gioco comico. Il riso disegna infatti un universo alternativo che sta sotto il segno dell'autenticità (di natura o di logica, e cioè degli istinti o dei fini) conculcata dalle manipolazioni dei valori e delle gerarchie stabilite. Si pensi alla forza eversiva del Tartufo di Molière non in quanto rappresenta tipi sociali del potere (il devoto, ad esempio) ma in quanto contesta vizi e atteggiamenti (l'ipocrisia) su cui è costruito l'intero edificio della morale.
Una carica etica si affianca dunque all'irriverenza trasgressiva propria della festa: contraddittoriamente anche, almeno per la coscienza comune, perché l'una si situa nell'area dei valori i positivi e l'altra invece nella sfera della «colpa». La verità dell'inconscio è ammessa infatti come eccezione; I'orgiastico del carnevale si consuma quale irregolarità ed è sempre avvertito (anche nelle forme più prossime allo spettacolo) come una frattura temporanea nell'ordine costituito; mentre la critica delle finzioni, perfino quando disegni un mondo utopico, si ispira nella sua derisione a un'esigenza di superiore moralità. Di qui una ragione delI'ambiguità del comico, che partecipa di una doppia natura a somiglianza delI'uomo, una bassa e una alta secondo le localizzazioni di sempre dei princìpi vitali; ed è quindi contemporaneamente, in ogni sua singola manifestazione, atto degradante e autodenigratorio e insieme rivincita del giusto e del vero.
Il comico contiene in modo essenziale un elemento di teatralità. È tendenzialmente intrattenimento, scambio, scena. Se ciò non esclude il «silenzio», nel quale si realizza forse la sua esperienza più alta, tuttavia il riso solitario è piuttosto un'eccezione o un limite e appare anzi perfino come devianza da quel più diffuso impiego che si manifesta nella comunicazione collettiva. Da cui il grande consumo di spettacoli comici dei più disparati livelli (ma con inevitabile prevaricazione di quelli scadenti, la farsa o la facezia, da sempre destinati al pubblico più largo e ora saliti ai fasti del cinema e della televisione). Segno del bisogno di comunicazione che è intrinseco al comico, e quindi di una sua virtuale teatralità. Ridere è un messaggio inviato agli altri; è, tra molte altre cose, un rito di società, un riconoscimento dell'individuo nel gruppo.
Il riso malvagio ha qualcosa di luciferino. Neppure la collera più aspra o I'odio più violento possono esprimere la forma di perversione propria del compiacimento di un riso satanico. Nei suoi vari gradi - dalla smorfia sardonica fino al ghigno mostruoso - a perfidia del ridere consente di toccare zone più profonde e più nere della psiche perché dominata, più che lo stravolgimento della passione, da una fredda intenzionalità di male. Ma, all'opposto, si parla di un «riso angelico». Gli angeli manifestano il sublime della loro partecipazione al divino attraverso la piega (per quanto ambigua) delle labbra atteggiate al sorriso. Certa arte barocca ha rappresentato il mistero (a metà carnale, a metà spirituale) di questa felicità che è anche estraniazione dall'umano. Ma perfino in Kafka gli «assistenti», così simili ad angeli (gli antichi angeli custodi) e così enigmatici, si rivelano fra tutti i personaggi sinistri dello scrittore praghese i più disponibili o gli unici disponibili alla leggerezza di un riso infantile: sintomo, pur nella carnalità di questi esseri, di una comunicazione segreta con l'interno del Castello.
Il riso mette dunque in contatto con I'inferno e con il paradiso, con le forme estreme del bene e del male, meglio che gli stati «seri» della persona, meglio che un volto terribile o un'estasi mistica. Si deve pensare che è il mistero del ridere ad aprire strade altrimenti impercorribili?
Il comico ha inventato figure che alludono a uno statuto sociale anomalo: I'istrione, il buffone, il folle (ma anche le maschere comiche). Esse comportano sempre in chi le esprime una «perdita di dignità» e in chi le osserva un'offesa. Ma questa offesa è consentita: il re che ascolta Falstaff, i sani di mente che si divertono alle astruserie del pazzo, il pubblico che assiste ai gesti scomposti dell'istrione, li accettano o li sollecitano pur sapendo di esserne il modello. Nella vita di corte il buffone è un personaggio di contrappunto immancabile. Amleto quando vuole dire la verità si finge pazzo, e la sua follia sarebbe tollerata se fosse vera. Potere e comicità si dimostrano contigui ma solo in queste figure di eccezione (alle quali si aggiunge a volte il letterato di corte). Esistono creature difformi e deformi a cui viene permesso - o delegato - di portare in luce l'altra faccia (negata) del mondo, a patto però di essere esse stesse anomalie o caricature mentre rappresentano la caricatura della faccia visibile. Anche le maschere comiche hanno volto deforme, un abito segnaletico, gesti e parlata diversi, che le additano quali esseri estranei al vivere civile.
Come gnomi, streghe, orchi fanno irruzione nella fiaba per testimoniare di un regno invisibile, così buffoni e folli sono simboli di potenze oscure e sgradite che soltanto nella finzione diventano ammissibili. Avviene sempre, nello spettatore, una metamorfosi alla Mr. Hyde in loro presenza, e folli e buffoni garantiscono che sia provvisoria.
Non so se sia stato indagato sistematicamente il rapporto del comico col sogno. Ma certo l'esperienza onirica accentua talvolta il ridicolo delle persone; capita che chi conosciamo nella realtà ci appaia in questi spettacoli notturni non solo assurdo ma anche sotto movenze impacciate o pasticciate di cui non l'avremmo sospettato da svegli. E poi c'è l'esperienza del riso da parte del soggetto sognante, un riso spesso eccessivo che si prolunga nel risveglio ma del quale subito smarriamo le ragioni.
Il comico si palesa dunque come il crocevia di percorsi divergenti. Guidati dal riso, possiamo entrare in regni opposti e anzi contaminarli l'uno con l'altro. La sua natura sembra spesso proprio quella di aprire porte contrastanti, per esempio instaurare il disordine e negarlo. Una doppiezza fondamentale marca la comicità. Nel riso l'uomo, al pari dell'ebbro o del folle, è più vicino alla saggezza o all'oscurità? D'altronde il comico consente di raggiungere zone più distanti dal «centro», d'inoltrarsi in un alone che sta oltre i confini noti, quasi cerchio esterno dell'intelligenza e del corpo. Qui ancora si potrà incontrare qualcosa che di solito non frequentiamo, magari il bestiale o l'angelico, la scommessa dell'astruso che si realizza in un paradosso oppure la libertà più bassa che prende le forme dell'osceno. Il comico è insomma un'estensione del campo della coscienza e un modo di sovvertimento del principio di contraddizione. La letteratura ha assunto in sé questa duplice funzione del riso. Come nelle sue espressioni esistenziali, anch'essa se ne è servita per scendere o salire di più lungo la scala dell'umano, usando e abusando del linguaggio verso estremizzazioni altrimenti impossibili. La parola comica ha certamente il fine di suscitare divertimento, ma attraverso questo si compie qualcosa di più: una violenza alla logica, uno squilibramento nella coscienza fisica o razionale. L'immagine appropriata è forse quella di un uomo che si sporga pericolosamente dall'orlo di un abisso ma tenendosi legato a fili sottili ed elastici. Il comico è questo rischio calcolato sul vuoto. Ci si può spingere molto in avanti proprio perché il ritorno è garantito: s'intende, dopo aver contemplato, in virtù del rischio, figure inconsuete. In questo senso esso ha qualcosa in comune con l'esorcismo che salva mentre avvicina di più allo spavento. Certi sipari del mondo superiore o del mondo inferiore si sollevano soltanto nel riso.
Ci sono poi due forme del comico che sono proprie soltanto della letteratura. Una è la metafora del «riso della principessa», rappresentazione simbolica della potenza del comico quale unica in grado di trarre dalla malinconia. Qui lo stesso prodigio del riso è oggetto di narrazione. Nel mondo fiabesco l'intera catena dei racconti ha spesso il fine di suscitare quest'ultimo prodigio.
L'altra esperienza specifica della letteratura è la dissoluzione ironica delle forme narrative o poetiche. Queste diventano allora la materia del comico. È la letteratura che mette in causa se stessa, cioè l'operazione espressiva, il rapporto con la parola, l'immagine dell'universo che la parola letteraria ha dato e può dare. Insinuandosi in questa con la corrosione del gioco ironico, si istituisce un duplice dubbio: quello sulla credibilità dell'uomo e quello sulla credibilità del linguaggio. Ancora un raddoppiamento o sdoppiamento che apre stanze laterali del labirinto.
La letteratura, che nel mito della principessa riconosce il proprio potere magico, si ripiega così sopra di sé per rivelare il suo supremo arbitrio, la sua gratuità, la sua menzogna superiore.
(articolo pubblicato sulla rivista “MonOperaio”, maggio 1987
Illustrazioni di William Hogarth. Dall’alto in basso:
Il coro delle scimmie (1732)
La Congregazione dorme (1736)
Il matrimonio alla Moda: Il contratto, La colazione, La toeletta, La morte della Contessa (1745)
Scolari alla lettura
Ritratto dell’Artista.